Q&A - Partner Avv. Stefano Olivo
In questo articolo analizzeremo il reato di diffamazione (art. 595 c.p.) a mezzo Facebook con Stefano Olivo, avvocato penalista e Partner di Studio.
Analizzeremo diverse tematiche, in particolare: la fattispecie, i presupposti, le aggravanti, la riconducibilità del post all’autore del reato, la diffamazione con e senza nome, la condotta riparatoria.
IL REATO DI DIFFAMAZIONE SU FACEBOOK
Il reato di diffamazione previsto all’art. 595 c.p. punisce chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione. Lo stesso, pertanto, dovrà ritenersi sussistente tutte le volte in cui sia stata posta in essere, volontariamente, una condotta lesiva dell’identità personale diretta a distorcere, alterare, travisare e offuscare il patrimonio intellettuale, politico, religioso, sociale, ideologico o professionale dell’individuo, mediante l’offesa della sua reputazione (Cass., Sez. V, sentenza del 2011, n. 37383).
Ai fini della sua configurabilità, proprio per distinguerlo dal reato di ingiuria, ormai depenalizzato, è necessario che la predetta condotta offensiva si sia esplicata in un contesto o con delle modalità tali che ne consentano la sua diffusione e percezione da un numero apprezzabile di persone.
Per ciò che concerne, invece, l’elemento soggettivo di tale reato esso è rintracciabile nel c.d. dolo generico, anche nelle forme del dolo eventuale, inteso quale consapevolezza del soggetto agente di pronunciare frasi offensive dell’onore e della reputazione altrui, la quale può essere anche desunta dalla mera intrinseca consistenza diffamatoria delle espressioni utilizzate.
L’art. 595 c.p. al suo terzo comma prevede quale aggravante del reato, la condotta diffamatoria che si sia estrinsecata attraverso l’utilizzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, e commina, quale pena alternativa all’ipotesi semplice, la reclusione da sei mesi a tre anni o la multa non inferiore ad euro 516,00. La ricorrenza della detta aggravante, oltre a produrre effetti modificativi della sanzione determinandone un aumento della pena è modificativa anche della competenza del Giudice essendo la stessa devoluta, in tal caso, al Tribunale Monocratico e non già al Giudice di Pace, per com’è, invece, nelle ipotesi previste dal primo e dal secondo comma dell’art. 595 c.p.
La diffamazione via Internet e, quindi, anche quella posta in essere attraverso i social network è penalmente sanzionata ai sensi dell’art. 595, comma 3 cod. pen., perché commessa con altro mezzo di pubblicità (rispetto alla stampa), idoneo a determinare una maggiore diffusività dell’offesa che giustifica l’aggravamento del trattamento sanzionatorio previsto dalla norma.
Sul punto particolarmente esaustiva appare essere la pronuncia della Corte di Appello di Napoli n. 343/2019 secondo cui in tema di diffamazione, la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma 3 c.p., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o, comunque, quantitativamente apprezzabile di persone.
L’aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità, nel reato di diffamazione, trova, infatti, la sua “ratio” nell’idoneità del mezzo utilizzato di coinvolgere e raggiungere una vasta platea di soggetti, ampliando (ed aggravando), in tal modo, la capacità diffusiva del messaggio lesivo e, conseguenzialmente, aggravando gli effetti pregiudizievoli per la reputazione della persona offesa.
Evento questo che ricorre sia attraverso la classica pubblicazione di stampa e che, parimenti, si verifica, ordinariamente, attraverso le bacheche dei “social network”, destinate per comune esperienza ad essere consultate da un numero potenzialmente indeterminato di persone, secondo la logica e la funzione propria dello strumento di comunicazione e condivisione telematica, che è quella di incentivare la frequentazione della bacheca da parte degli utenti, allargandone il numero a uno spettro di persone sempre più esteso, attratte dal relativo effetto socializzante.
Il reato di diffamazione, pertanto, nella sua forma aggravata viene integrato ed ormai ritenuto pacificamente sussistente dalla Giurisprudenza di legittimità, anche nella semplice condotta di postare un commento sulla bacheca di Facebook, in quanto la stessa realizza la pubblicazione, la diffusione e la circolazione del contenuto tra un gruppo di utenti, comunque, apprezzabile per composizione numerica e, quindi, una modalità di diffamazione, potenzialmente, capace di raggiungere un numero indeterminato o quantitativamente notevole di persone.
La tracciabilità dell’indirizzo IP ad opera della Polizia Postale consente di risalire con certezza al dispositivo o al PC utilizzato per pubblicare le dichiarazioni diffamatorie, in quanto associato al titolare della linea telefonica.
Sul punto, appare utile qui riportare l’orientamento della V Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 5352 / 2018, con la quale il Giudice delle Leggi ha ritenuto che “la mancata verifica da parte dell’Autorità giudiziaria dell’indirizzo IP dal quale è partita l’offesa, non consente di procedere con il massimo grado di certezza possibile in merito all’attribuzione della responsabilità per il reato di cui all’art. 595, co. 3 c.p., dato che, difettando tale accertamento, non può escludersi l’utilizzo abusivo del nickname del presunto soggetto attivo del reato da parte di terzi, né risulta possibile verificare i tempi e gli orari della connessione”.
Tale orientamento appare solo parzialmente condivisibile ritendo che lo stesso non possa essere interpretato in senso assoluto ma vada contemperato alle risultanze probatorie acquisite in dibattimento, posto che nell’individuazione del responsabile dell’offesa possono convergere numerose risultanze. Quali ad es. l’attribuzione al soggetto passivo di una specifica condotta conosciuta solo dall’autore del reato; il movente dello stesso; il rapporto intercorrente fra la persona offesa e l’autore del post diffamatorio; la condotta successiva del presunto autore del post (l’avvenuta cancellazione dello stesso, l’eventuale proposizione di denuncia di usurpazione d’identità) la presenza di un profilo che potremmo definire “completo” nome, cognome e con l’esposizione di fotografie e di un’attività sul profilo inequivocabilmente riconducibile al titolare dell’account.
Si ritiene, pertanto, che il principio in esame possa essere applicato e/o comunque venire in aiuto alla difesa solo in quei casi in cui non si riesca attraverso altre fonti di prova a risalire con sufficiente certezza all’autore materiale del post pubblicato sulla bacheca della persona offesa.
Il predetto principio espresso dalla V Sezione della Suprema Corte, sopra richiamato, appare essere più confacente e più facilmente applicabile alle ipotesi in cui l’offesa venga pubblicata attraverso un profilo Facebook che non abbia alcuna riconducibilità ad una persona reale, contenente ad esempio immagini o nomi di fantasia.
In tal caso appare necessario, sempre in assenza di ulteriori elementi probatori che possano far risalire l’organo inquirente all’identificazione dell’autore del post, procedere attraverso apposita denuncia e/o comunque richiesta d’indagine, tramite la Polizia Postale, all’acquisizione dell’indirizzo IP, ai fini della identificazione del soggetto titolare della linea telefonica dal quale lo strumento informatico ha avuto accesso alla linea internet.
Diverso è il caso in cui, invece, il profilo c.d. falso sia un stato creato da un soggetto che utilizzando i dati anagrafici e l’immagine di un’altra persona si sostituisce ad essa nell’utilizzo della piattaforma informatica.
Nel caso di specie oltre al reato di diffamazione aggravata, lo stesso sarà anche chiamato a rispondere del reato di sostituzione di persona ex art. 494 c.p. Tale reato, infatti, e’ integrato da colui che crea ed utilizza un profilo su social network, utilizzando abusivamente l’immagine di una persona del tutto inconsapevole, trattandosi di condotta idonea alla rappresentazione di una identita’ digitale non corrispondente al soggetto che lo utilizza (Cass.Sez. 5, n. 33862 /2018).
Ai fini della sussistenza del reato di diffamazione attraverso l’utilizzo dei social network (inseriti, come sopra detto, nel genus degli “altri mezzi di pubblicità”) è necessario che il destinatario passivo del post diffamatorio sia individuato (nome e cognome) o facilmente individuabile da quel numero apprezzabile di persone che hanno accesso e/o cognizione del post.
Sul punto, infatti, la Suprema Corte con sentenza n. 17207/2015 evidenzia che: “non e’ necessario che il soggetto passivo sia precisamente e specificamente nominato, purche’ la sua individuazione avvenga, in assenza di una esplicita indicazione nominativa, attraverso tutti gli elementi della fattispecie concreta (quali le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali e simili), desumibili anche da fonti informative di pubblico dominio al momento della diffusione della notizia offensiva diverse da quella della cui illiceita’ si tratta, se la situazione di fatto sia tale da consentire al pubblico di riconoscere con ragionevole certezza la persona cui la notizia e’ riferita”.
Ciò importa che, ogni qualvolta il post diffamatorio contenga dei riferimenti che consentano di identificare con sufficiente facilità e certezza colui al quale il post è riferito, il reato si riterrà configurato ed integrato in tutti i suoi elementi costitutivi.
L’articolo 162-ter, introdotto nel codice penale dalla legge 23/6/2017 n.103, stabilisce che, nei reati procedibili a querela soggetta a remissione, il giudice dichiara estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa, quando l’imputato ha riparato interamente, entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, ed ha eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato.
La fattispecie normativa appare, certamente, applicabile al reato di diffamazione anche nella forma aggravata prevista dal III comma dell’art. 595 c.p.
Per beneficiare, tuttavia, della declaratoria di estinzione del reato, appare necessario innanzitutto rimuovere il post pubblicato al fine quantomeno di non portare ad ulteriori conseguenze il reato, in particolar modo il danno già prodottosi con la pubblicazione del post e procedere ad un congruo risarcimento dei danni.
Sotto tale profilo gli stessi non sempre saranno solo di natura morale, ma potrebbero anche essere di natura patrimoniale come nel caso ad esempio di un’attività commerciale che subisca un calo delle vendite e/o comunque dell’affluenza dei clienti a causa di un post fortemente negativo sulla propria bacheca.
La quantificazione del risarcimento del danno da offrire alla persona offesa – qualora si dovesse ritenere utile percorrere la strada dell’art. 162 – ter c.p. – dovrà essere valutata con attenzione da parte dell’indagato e/o dall’imputato, in quanto un’offerta reale di risarcimento effettuata – anche se non accettata dalla persona offesa -, ove, invece, dovesse essere ritenuta congrua dal Giudicante determina gli effetti di cui all’art.162 ter c.p. e, quindi, l’estinzione del reato.